EMOZIONI: storia e funzione

Quando si parla di emozioni è esperienza comune avere la sensazione di sapere di cosa si stia parlando, senza saper tuttavia spiegare precisamente cosa siano, come queste si generino e cosa comportino a livello personale e relazionale.
 
La ricerca neuropsicologica più recente (Panksepp, 2012), dopo anni di ricerca e studi, è giunta a definirle come stati complessi e momentanei, legati a eventi reali o mentali (come ricordi o pensieri), che sono caratterizzati da un’espressione emotiva, una componente fisiologica e dall’esperienza soggettiva. Per comprendere questa definizione, pensiamo, ad esempio, ad una delle varie emozioni che siamo in grado di provare: la paura. Ogni volta che proviamo paura, il nostro volto manifesta tale sentimento (espressione emotiva), il nostro corpo e il nostro cervello attivano una serie di risposte fisiologiche ad essa associate (il cuore batte più velocemente, i muscoli si irrigidiscono, il corpo si prepara ad “attaccare o fuggire”) e la nostra mente elabora le informazioni legate a questo evento, dando significato agli stimoli che l’hanno determinata e a cosa stiamo provando e immaginando strategie d’azione e possibili conseguenze (esperienza soggettiva) (Lazarus & Folkman, 1984).
 
Ma facciamo ora un’altra riflessione. I neonati esprimono paura, ma il loro modo di farlo è diverso da quello di Dimitri, impresario d’azienda di 43 anni, originario di Mosca? (figura1)
Sorprendentemente, la risposta all’ultima domanda è no. La ragione di questo sta nel fatto che siamo geneticamente dotati di schemi emotivi sin dalla nascita (che, ovviamente, con lo sviluppo si affinano e si differenziano sempre di più), e questo è un regalo della nostra evoluzione (Ekman, 1971).
Figura 1: Espressione della paura
La nostra mente si è evoluta per aiutarci a sopravvivere in un mondo pieno di pericoli. Proviamo ad immaginare di essere un primitivo cacciatore-raccoglitore.
La nostra priorità sarebbe quella di prestare attenzione a tutto ciò che può costituire un pericolo e di evitarlo. Immaginate, però, di essere di fronte a una tigre con i denti a sciabola e di non provare paura. Cosa accadrebbe? La mente dei nostri antenati era sostanzialmente un dispositivo per non farsi uccidere e si dimostrò di enorme utilità, infatti più essi diventavano bravi a prevedere, evitare e comunicare il pericolo, più a lungo vivevano e più figli facevano.
 
La vita nelle caverne, i mammut e gli utensili fatti di pietre e ossa appartengono ormai a 100.000 anni fa. Il mondo è cambiato, le difficoltà e i predatori di oggi sono diversi da quelli dei nostri antenati, tuttavia, condividiamo ancora con loro quella struttura mentale di base che ci ha portati a sopravvivere ed a evolvere noi stessi, le nostre case e le nostre reti sociali. Le emozioni sono state, e sono tuttora, un prezioso strumento per comunicare pericoli, per avvertire situazioni di disagio e sentirsi incoraggiati ad agire e reagire, per ricercare supporto (si pensi ad esempio alla nostra reazione quando vediamo qualcuno piangere) e per trasmettere gioia o rabbia (Harris, 2010).
 
Le emozioni, dunque, di per sé non sono positive o negative. Persino quelle emozioni considerate normalmente come negative, ossia paura, vergogna, rabbia e tristezza, sono adattive. È necessario, quindi, non reprimere ed evitare le emozioni e le situazioni che le elicitano, bensì farne esperienza, comprenderle ed accettarle. Affinando la nostra capacità di riconoscere, valutare e regolare le emozioni, nonché di comprendere quelle altrui, saremo in grado di dare riposte coerenti e adeguate al contesto e in linea con i nostri scopi e desideri (Goleman, 1995).
 
Per concludere, provate a pensare all’essere umano come ad una carrozza guidata da un cocchiere e trainata da cavalli. La carrozza è il corpo fisico, i cavalli le emozioni e il cocchiere la mente.
I cavalli sono i motori della nostra mente che ci spingono ad andare avanti e a muoverci, ma perché ci portino nella direzione che desideriamo, vanno nutriti e guidati, senza né fermarli né lasciarli vagare senza meta (Gurdjieff, 1973).